IN MEDIO STAT
La parola scritta su quella 'pagina bianca' da Maria Grazia De Stefani racconta, non rappresenta l'immagine che l'occhio riceve. La parola, 'quelle parole' scelte durante il viaggio della scrittura, rincorre la fisicità della differenziazione del divenire per ricreare gli attimi diversi della appropriazione del reale, del sentire e udire che si concretizzano in "lettere scarne", amorose e ironiche. Il gioco prende quella 'parola' che racconta e la vivifica con la luce del presente.
Il piccolo foglio raccoglie un ritmo cadenzato, ossessivo che esprime atti di desiderio, desideri ogni volta in crisi. Le parole si rincorrono ascoltando il loro suono e non riescono a fermarsi. Ogni ultima frase, però, coglie l'attimo, ora stanco, ora felice, ora perdente del percorso di adesione al divenire. L'ossessione è atto di ribellione; le parole sono in corsa, sfuggono nel loro sperdersi.
Come fermare questo fluire che, come circolo che annoda, invischia e vuole annullare l'immagine, atto di sintesi di una richiesta? Come creare un "frammento" che sveli, bloccato in quell'attimo e solo in quell'attimo, la fisicità dell'interrogarsi?
Maria .Grazia De Stefani si allontana, allora, dalla parola che si rincorre e sceglie una frase sola, ogni volta diversa:
In medio stat rosa
E io sono la freccia
S R A D A D A
E poi quel nero, magico nero
E il fuoco
Fortunatamente la primavera fiorisce anche a Parigi
Che di luce ri-de
la immerge, come corpo compenetrante, in piccoli 'spicchi' di vetro:
specchi che rifrangono una luce propria del luogo, spazio in cui vivono.
Il colore che non accompagna ma sottolinea l'atto del Narcisismo, che si confronta con il mondo, lo guarda, lo scruta è un'altra parola che si aggiunge all'atto poetico.
Maria Grazia De Stefani ha abbandonato la parola 'lunga' per darci il finale di ogni corsa, di ogni crisi espresso in immagine verbo-figurale: i frammenti di specchi, le parole e i colori sono i segni di un unico linguaggio, quello poetico.
Ginestra Calzolari
La parola scritta su quella 'pagina bianca' da Maria Grazia De Stefani racconta, non rappresenta l'immagine che l'occhio riceve. La parola, 'quelle parole' scelte durante il viaggio della scrittura, rincorre la fisicità della differenziazione del divenire per ricreare gli attimi diversi della appropriazione del reale, del sentire e udire che si concretizzano in "lettere scarne", amorose e ironiche. Il gioco prende quella 'parola' che racconta e la vivifica con la luce del presente.
Il piccolo foglio raccoglie un ritmo cadenzato, ossessivo che esprime atti di desiderio, desideri ogni volta in crisi. Le parole si rincorrono ascoltando il loro suono e non riescono a fermarsi. Ogni ultima frase, però, coglie l'attimo, ora stanco, ora felice, ora perdente del percorso di adesione al divenire. L'ossessione è atto di ribellione; le parole sono in corsa, sfuggono nel loro sperdersi.
Come fermare questo fluire che, come circolo che annoda, invischia e vuole annullare l'immagine, atto di sintesi di una richiesta? Come creare un "frammento" che sveli, bloccato in quell'attimo e solo in quell'attimo, la fisicità dell'interrogarsi?
Maria .Grazia De Stefani si allontana, allora, dalla parola che si rincorre e sceglie una frase sola, ogni volta diversa:
In medio stat rosa
E io sono la freccia
S R A D A D A
E poi quel nero, magico nero
E il fuoco
Fortunatamente la primavera fiorisce anche a Parigi
Che di luce ri-de
la immerge, come corpo compenetrante, in piccoli 'spicchi' di vetro:
specchi che rifrangono una luce propria del luogo, spazio in cui vivono.
Il colore che non accompagna ma sottolinea l'atto del Narcisismo, che si confronta con il mondo, lo guarda, lo scruta è un'altra parola che si aggiunge all'atto poetico.
Maria Grazia De Stefani ha abbandonato la parola 'lunga' per darci il finale di ogni corsa, di ogni crisi espresso in immagine verbo-figurale: i frammenti di specchi, le parole e i colori sono i segni di un unico linguaggio, quello poetico.
Ginestra Calzolari
Quando la parola è segno
La parola perde il suo significato primario inserita in uno spazio visivo.
Anche se la spinta alla creazione dell'opera può essere il valore semantico, questo poi si sperde e diviene segno - il contenuto verbale si modifica e si nullifica per ricrearne uno diverso che prolifica nella sua gestualità.
Il valore semantico è importante ma se rimane tale in un contesto pittorico diviene e rimane letteratura, se invece perde i suoi connotati rivela un nuovo linguaggio.
Cosa importa poi cosa viene scritto con quella grafia ora stampatello ora libera? Più nulla. Può essere un ricordo per un titolo. Ora è solo segno. Ecco il passaggio che permette l'uso dei simboli grafici in un contesto di arte visiva.
Ciò si sta attuando proprio in questi ultimi lavori di Maria Grazia De Stefani.
Se il significante della scritta prendesse il sopravvento avremmo una poesia visiva che tenta di liberarsi dai propri legami. Ora Maria Grazia anche se ama quelle parole che hanno disturbato la sua ed altrui vita, le abbandona alla loro semplice e complessa vita segnica ove la simbologia verbale perde ogni referente.
Allora le lettere divengono parte dello spazio conquistato con maglie, fiori, piccoli giochi di un mondo di celluloide. La carta non è più lo spazio deputato della poesia anche se essa fosse visiva, bensì trasmigra verso quello della pittura con immagini concrete e manufatti.
Che poi ci siano ricordi non vissuti né conosciuti di un arte (pop) di anni addietro è una marginale considerazione; che poi ci sia una sensibilità al femminile non è rilevante, perché sia la storia che il femminino fanno parte della creatività. «L'arte si sviluppa perché riflette l'arte precedente e riflette su questa arte precedente.
... L'originalità è l'opposto della novità». (George Steiner)
Ginestra Calzolari
Bologna, settembre 1992
Tessoscritture
Tutto è lieve in questi ultimi lavori di Maria Grazia De Stefani, in perfetta corrispondenza alla cultura contemporanea, che gioca di nuovo su un recupero di leggerezza, di concettualità, di morbidezza e di sonorità, quasi ci trovassimo sempre davanti a un video. Lievi carte bianche diventano infatti degli schermi nei quali l'immagine figurativa di una volta, piena di pittura, si azzera per fare posto a segni minimi, a scritture e a tessiture. La superficie bidimensionale è rifilata una o due volte ed è per lo più divisa in due parti. È stata la mano di un'abile tessitrice che ne ha «cucito» pazientemente i contorni con colorati fili di lana, quasi spinta da una necessità di sottolineare i supporti con un mezzo ben più `caldo' del colore, di qualsiasi natura possa essere. L'artista si è volutamente trasformata in una raffinata artigiana, ma per paura di un eccesso d'ordine, a volte lascia pendere i fili colorati, quasi fossero dei resti di cordoni ombelicali con le sue creature nuovenate, assicurandosi così di poterle sempre riprendere al guinzaglio, per il piacere di toccarle di nuovo, di risentirle, in una continua riappropriazione attraverso il tatto. Dopo la preparazione dei supporti-schermi l'artista con la stessa sofisticata artigianalità, continua a costruire immagini lievissime di gilets, in una divertente successione di ripetizioni differenti. Ci appaiono così corazze `minime' del nostro corpo, lavorate a maglia, tutte o in parte. E le variazioni del tema servono a sottolineare che si tratta di tanti scudi da opporre al mondo e alla paura che quest'ultimo spesso può provocare. Sono solo leggeri suggerimenti in mezzo ai quali capitano a volte vari objets trouvés. Tutto vibra, dalle lievi carte agli impalpabili strati di lana, in una dialettica raffinatissima che mira a smaterializzare tutti gli eccessi di pittura ai quali eravamo abituati fino a poco fa. Perciò l'artista preferisce giocare sulle trasparenze e sulle rarefazioni, aprendo le porte anche alla sonorità.
Maria Grazia De Stefani infatti non dipinge, ma sulla scia di molti artisti dell'Arte povera, scrive e dissemina di frasi personali tutti i suoi lavori.
La parola viene ad assumere un peso particolare anche grazie alla forma che assume, dura e forte come quella desunta dalla grafica degli anni Venti. In tale modo convive contemporaneamente un doppio ricordo, quello delle forme di un passato prossimo e quello del mondo privato dell'artista, pescato dai suoi voli di memoria, come avevamo visto bene anche dalla sua precedente produzione poetica. Ma si sa che oggi si può, anzi si deve, essere poeti in modo libero, sempre pronti a giocare su una nuovissima intraverbalità che preferisce le parole e le frasi saldate le une alle altre, oppure tutte ben `sonorizzate' da una recitazione particolare. Ed è proprio ciò che accade nei messaggi contenuti in questi lavori, che non solo vanno letti e decifrati come fossero dei rebus, ma che vanno anche affidati alla nostra voce.
Di colpo ci rendiamo conto che la leggerezza di queste opere porta in sé un quantum particolare di stimoli diversi: noi non possiamo infatti stare lì solo a guardare passivamente, ma dobbiamo sonorizzare il lavoro per capirlo a fondo.
Così le scritte LONG FRAIL LOOSE LULLABY e EARLY MORNING LULLABY ci cullano dolcemente, proprio come delle ninnenanna. L'artista ci ha offerto con l'inganno un assemblage di lettere che noi e solo noi, divenendo più attivi e coinvolgendo il nostro bagaglio sensoriale, possiamo decifrare. Contemporaneamente, come ho detto, siamo sempre tentati di toccare i «caldi» fili pendenti e di sfilarceli fra le dita, come fossero tante `memorie' lievissime. E dunque il lavoro che ci è offerto diventa col tempo anche nostro, proprio perché siamo dolcemente spinti a metterci in gioco, sia per una ricerca intraverbale che ci fa «lavorare» dentro alle parole, sia per un contatto diretto con la materia soft delle varie parti.
Spesso le scritte sono velate e parzialmente nascoste da diversi strati di carta o di lana lavorata, in modo tale che la lettura dell'insieme avviene in tempi successivi, un poco alla volta, anche se spesso siamo aiutati da particolari sottolineature ottenute da cuciture di fili o da chiusure lampo apribili. L'opera vestita è pronta ora a essere decodificata per ritornare alla sua virtuale nudità.
In altri casi invece le frasi sono perfettamente leggibili e si dipanano lungo percorsi ondulati, come nel candido SWEET KISSES SWEET KISSES. Qui l'interruzione minima della lettura è dovuta a due rosse labbra che fioriscono al centro del lavoro e che subito sottolineano il titolo. Si tratta di un inserto kitsch in mezzo a tanto candore, posto là proprio per fungere da elemento di rottura, come del resto sono le forbici, disegnate più in basso. Queste ultime non sono solo uno degli strumenti del mestiere, come avevamo visto numerose volte nelle opere di Jim Dine o di numerosi artisti dell'Arte povera, ma rappresentano concettualmente un forte elemento di rottura o di paura di rottura del dolce messaggio legato a una storia di affetti. Stanno lì, pronte a recidere il filo logico della frase. A volte invece nel candore del supporto compaiono colori caldi, al posto delle minime variazioni dei bianchi e dei grigi. È la volta questa che compare un gilet giallo che vela in parte un palloncino rosso di carta trasparente, una specie di cuore pulsante. Entrano a questo punto i colori della vita e dell'esuberanza in IT'S THE LAST ROSE OF SUMMER, tanto forti che anche la scritta, nelle parti velate, si rafforza, diventando più pesante e nera. Ancora una volta l'artista gioca sulla scrittura, fra il soft e l'hard, fra il pieno e il vuoto, fra il chiaro e lo scuro, fra il pubblico e il privato, tirandoci dolcemente con i suoi fili a prendere parte attiva ad un suo ultimo ricordo estivo.
Alessandra Borgogelli
Bologna, 3 febbraio 1993
Mitologie e immagini simboliche nelle opere di M. G. De Stefani
La caduta del "sacro" è quanto di più notevole sia avvenuto non solo nel sensorio sociale occidentale della seconda metà del secolo, ma anche nell'arte, dove il contenuto metafisico s'è apparentemente annullato.
Non è stato così nella prima metà del Novecento, in epoche in cui da Mondrian e Kandinsky, da Malevic a Klee e alla Metafisica, il significato dell'immagine riportava a contenuti noumenici, spesso di carattere misteriosofico come nelle opere di Mondrian, di cui è nota la sua appartenenza a circoli teosofici.
Eppure una inquietante sacralità ha invaso le opere di Paolini, di Kounellis e Pascali, non meno che quelle di Liithi, Patella e Gina Pane.
Si tratta di travestimenti della realtà, in cui appare una nuova mitologia, vuoi attraverso il corpo, vuoi attraverso opere che evocano archetipi etno-antropologici.
Essi istituiscono connessioni simboliche che implicano non solo legami con l'inconscio, ma anche con pratiche che pur restando sul terreno del quotidiano e nella sfera della presenza "mondana", invocano conturbanti fantasmi.
E' su questa scia, di una ripresa dell'immaginario concettuale che De Stefani è approdata ad un'espressione visiva di antica austerità e di attuale simbolismo: l'icona di un inquietante indumento che spesso, anche nella prassi pubblicitaria, rappresenta una sinneddoche corporea.
Partendo da fabulazioni mitopoietiche implicite nel potere azzerante della parola, anzi della "frase" poetica che ha sempre la forza di catturare brandelli di realtà e di conferire un carattere di universalità e di eternità che spesso è solo latente nell'immagine (che per trovare la medesima efficacia ha bisogno di un riferimento iconologico pregnante) l'artista si serve abilmente di quella rappresentazione che nell'immaginario sociale della contemporaneità rievoca sentimenti di autorità e di austerità.
Esso prende anche un carattere di maestosità quando diventa il simbolo della razionalità nella lotta contro la "bestialità" per antonomasia: è infatti l'indumento principe dei toreri. Qui non si vuole rievocare viete problematiche vetero-femministe, ma l'immagine liberatoria offerta dalle opere recenti di De Stefani concludono un cammino iniziato alcuni anni fa.
Tuttavia, nelle opere esposte nel '93, De Stefani quasi con intenzionalità ostendeva i suoi "manufatti" come una conquista di una sua personale pratica fantastica.
Oggi, abbiamo un'unica immagine, reiterata e riproposta come punto di riferimento di una interna poeticità che non vuole fare nulla per essere rimossa: il simbolo deve risuscitare interne ferite, ma ostendere pubbliche sacralità.
De Stefani è riuscita a superare le insidie della creatività come funzione riparatrice, per approdare a sicuri legami con la pratica artistica di maestri che hanno inserito la parola e quindi la pressione della mano, anzi la sua vivezza, come deuteragonista nella composizione dell'immagine, e il primo raffronto che viene in mente è quello con Gastone Novelli.
E' una sfida all'artigianalità, quella che Dorfles chiama "l'odierna pratica desueta" che sopravvive solamente nell'universo irrimediabilmente élitario dell'opera d'arte. La quale arte, se ancora vuole mantenere un proprio statuto, ha da conservare - gelosamente - i suoi peculiari valori che sono quelli del gioco estremo della drammaturgia dei ruoli in una rinascita di sacralità del tutto "privata" che - spesso e nonostante le utopie liberatorie - la pratica sociale tende a calpestare.
Paola Serra Zanetti
Bologna, 11 marzo 1995
(Musica dei Pigmei = acqua)
Ho appeso abbracciami-giallo
e solitudine-rosa
nell’aria
e delimitato uno spazio con tre pertugi per suggerire lo “sguardo”
Ora “muovo” un vento artificiale
le mie lunghe dita fanno vibrare il presente appeso nello spazio-nulla
fanno vibrare l’aria
il giallo dell’abbraccio e il rosa della solitudine
Le luci abbacinano colui che cammina nella curiosità del “sapre”
la voce canta preghiera di ascolto
svela il richiamo
(canto arabo)
Colui che ha perso il tempo-interno volga gli occhi e superi la soglia
Il rito è compiuto
si apri(a)no le danze del piacere nella coscienza di uno spazio, di un tempo
senza memoria
(azione e voce di Carmen Esposito)
Ginestra
Bologna, giugno 1999
Habitus et cultus
È azzardato sostenere che il tratto caratterizzante il lavoro di Maria Grazia De Stefani è digressivo, parentetico? Le sagome "in fieri" che costituiscono la sua "galleria di abiti" sono, lo ha visto bene Paola Serra Zanetti, sineddochi reiterate, parti, torsi, frammenti che spostano l'asse dell'attenzione sul particolare rispetto al tutto, e si mostrano nel movimento provvisorio del loro farsi , non più progetto, non ancora oggetto perfettamente confezionato e autonomo, ma vesti cucite alla carta in stato di "prova", di transito, là dove la cosa si commisura a un'idea. Incisi e parentesi amplificati dalle incorniciature, da frequenti e plurali riquadri di riquadri, da schermi di veline, da raddoppiamenti di supporto, da fili pendenti che visualizzano il ritmo del tempo, ne rendono fisico l'accadere: distanziare l'atto e la presa diretta? Accentuare il carattere di frammento? Ritardare o annullare del tutto l'essenza per l'apparenza, dilatando il processo di finzione? Nè vale, per rispondere agli interrogativi, cercare soccorso nei titoli, ulteriormente digressivi e depistanti: spesso attraversano il quadro come un'onda sonora (o magnetica), la réclame di sottofondo di un brandello di vita, entrato incidentalmente nel cono di luce-ombra dell' opera, dove le forme si sovrappongono e s'intersecano, ma permangono le cesure di nicchie spazio-temporali indipendenti. Un'estraneità di fondo, si direbbe, come un gioco di simulacri e sembianze, sulla scia di una tradizione tutta novecentesca che ha fatto ampio uso della maschera, del manichino, della figura del pierrot-clown, e che al fondo ha sempre mantenuto un nocciolo di senso tragico. Non è questa, io credo, la ricerca che De Stefani va perseguendo con la sua "galleria di abiti". E le ragioni del suo differente operare le si ritrovano proprio nell'oggetto stesso, centro di interesse e fulcro della visione. L'abito (dal latino habitus) non è solamente sinonimo di "involucro", "schermo": l'aspetto", infatti, è uno dei quattro significati che assume. Gli altri, rispettivamente forma, condizione, disposizione, mi sembrano più pertinenti, più aderenti alle intenzioni e al lavoro di Maria Grazia.
L'abito, nel senso di forma, è un che di dialettico, perchè, se l'abito nasconde, d'altro canto rivela che qualcosa vuole essere celato, in una tensione permanente tra il vedere e il non vedere. E allora viene da chiedersi che cosa, nell'opera di De Stefani, si trovi sottoposto a una tale polarità intensiva. La risposta più prossima è che non qualcosa, ma la poetica stessa dell'artista ruota attorno a questo nucleo in cui digressioni, parentesi, schermi hanno esattamente la funzione di parcellizzare la visione, relativizzarla, restituirla in un luogo ambiguo e sospeso in cui ogni elemento mostrato si trova costantemente avvinto a una sorta di ritrosia a rivelarsi. L'abito" di De Stefani, in questo caso, in quanto condizione, stato , affonda le sue radici in una componente "esistenziale" di cui i titoli sono un riverbero pallido, ma altamente significativo: il progetto scivola nell'esistenza, la metafora dialoga con la vita, entrambe sono costrette a cedere qualcosa pur di conservare intatto un che di sottinteso mistero, ma così facendo l'opera raggiunge la sua piena disposizione ad accogliere lo sguardo discreto dello spettatore, a restituirgli il dubbio e la cautela, a sfumare nel dettaglio la meraviglia e la sorpresa. L'abito" di De Stefani, lungi da assestarsi dalle parti dell'apparenza, della maschera, del doppio, si avvicina assai di più all' habitare, alla dimora, il luogo in cui l'artista fa risiedere i suoi pensieri e le sue emozioni che nell'opera si fanno cultus, nella molteplicità di significati che vanno dal cólto al còlto, coltivato e raccolto, secondo un andamento ciclico vitale e rinnovato.
Se queste sono le coordinate di una poetica, l'intervento che Ginestra Calzolari mette in atto all'Associazione Culturale Italo Francese, ho appeso abbracciami-giallo e solitudine-rosa, tocca questi temi di fondo. Le due opere di De Stefani chiamate in scena, Just yellow e Lonesomeness, entrambe del 1998, non sono un commentario all'azione, non fanno da sfondo, ma sono i due personaggi protagonisti attorno ai quali viene ritagliato-circoscritto (un'ulteriore parentesi-digressione?) lo spazio-tempo del cultodimora-abito (le opere abitano il luogo dell'azione, lo agiscono) in cui si celebra il rito iniziatico della visione e del vedere. Per far questo Ginestra Calzolari ha "tradotto" in suoni e gesti ciò che De Stefani mostra cogli occhi, così che testo sonoro e testo visivo scorrono parallelamente e reciprocamente si richiamano, mentre l'azione interagisce e rimbalza dall'uno all'altro. L'esito è quello di una sinestesia reiterata, anzi di una sequenza di sinestesie organizzate de habitu et cultu, uno spazio-tempo vitale di acqua cadenzata e d'aria sospinta, di delimitazione e di transito, spazio-tempo iniziatico "senza memoria" in cui l'abito, infine, può incontrare il suo contrario, le "nudità" di un occhio e un orecchio "spogliati" dei retaggi della tradizione e delle soxrapposizioni della storia.
Un tale intreccio di motivi ci porta a dire che la frequentazione di Maria Grazia De Stefani e Ginestra Calzolari non si esaurisce nelle collaborazioni e negli interscambi di questa come di altre "occasioni" espositive, ma è l'esito di un sodalizio ben più radicato e profondo, è la condivisione, in buona parte, di tematiche di fondo relative all'arte contemporanea, pur nell'autonomia di pratiche disciplinari e di linguaggi differenti.
Mario Bertoni
Bologna, giugno 1999